Dire che Carlo Porta (Milano, 1775 - Milano, 1821) e Giuseppe Gioacchino Belli (Roma, 1791 - Roma,1863) sono i massimi esponenti della poesia dialettale dell’Ottocento è far loro un torto. Sono due grandissimi poeti (anzi romanzieri, vedremo poi il perché) che possono ben volteggiare alle altezze dei coevi Foscolo (Zante, 1778 – Turnham Green, 1827) o Leopardi (Recanati, 1798 – Napoli, 1837), il cui valore viene percepito in modo riduttivo per la scelta di esprimersi in madrelingua “plebea” anziché nell’idioma letterario che costituisce di questa quasi una “traduzione”. Se almeno parte del loro corpus poetico l’avessero scritta in italiano (come faranno anche Berchet, Manzoni e gli altri), probabilmente la loro notorietà sarebbe molto più estesa.
Perché considerare Belli e Porta romanzieri? L’oggetto della loro ricerca è l’accurata descrizione di modelli e comportamenti sociali, d’involontario (ma forse no) affresco storico, di tableaux-vivants e dialoghi pronti per il teatro capaci di restituire il loro tempo con tale complessità e ricchezza di sfumature da dilatare enormemente i confini della poesia. Esula da questo contesto un esame più approfondito, chi volesse può approfittare dell’illuminante lavoro di Dante Isella (in C. Porta, Poesie, a cura di D. I., Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, pp. XI-XXIX). Qui vorrei dire solo del criterio adottato nella “traduzione” per rimanere fedele e non perdere il blend aristo-becero di donna Fabia: un misto di arcaismi, fini diciture e termini eleganti mescolati al linguaggio corrente, non senza la civetteria di infilarci qualche bella volgarità. È il mondo dell’aristocrazia lombarda fine ‘700, che regge la sua economia su immensi possedimenti e rendita agraria che permette la bella vita in città e lo sfogo della villeggiatura nelle splendide sontuose lombarde dimore. Con esercito annesso di domestici, cameriere, fattori, giardinieri, cuoche, sguattere, cocchiere, il maggiordomo più realista del Re e finalmente l’immancabile prete di casa, i cui buoni uffici dovrebbero garantire la dolce vita nell’aldilà intanto che si godono bellamente i privilegi dell’aldiquà. Questo spiega perché rimangano alcune parole milanesi monche in coda (Fabron, tal, qual, ugual, simil, infallibil, mandare a dar via, etc ) e i vezzi scurrili che mai abbandonano i signori, sorta di grossolana lingua parallela che scorre nella conversazione come il fosso di fianco alla strada.
Del Porta ho inteso rispettare anche l’entrare e l’uscire dal canone della metrica, secondo il tono umorale del momento: a tratti aulico, altrove “pratico”, senza riguardi per l’infrazione.
La poesia in milanese, per quei pochi che lo parlano (e sia chiaro che per capire tutto devo fare uno sforzo anch’io!) è spassosissima. Per farla intendere a tutti, lo spettacolo aggiunge un controcanto dal vivo: Adriana, in paziente attesa che il film finisca (come in un’installazione di Fabio Mauri o Bob Wilson) per poi snocciolarne con garbo la traduzione. Ho lavorato con Adriana Asti per la prima volta nel 1994, nel film Pasolini, un delitto italiano. Ci siamo ritrovati poi nel tempo: La meglio gioventù (2003), Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005), fino a pochi mesi fa in Nome di donna. Da sempre avremmo desiderato fare insieme qualcosa dedicato al Porta, nume tutelare di entrambi meneghini. Naturalmente si deve immaginare la Milano dei quadri del Piccio (Giovanni Carnevali), di Carlo Canella, Giuseppe Elena, Giuseppe Molteni o i ritratti di Andrea Appiani e di Francesco Hayez.
Il costume di Adriana, più che rifarsi alla moda primi ‘800 (con predilezione napoleonica per stoffe leggere e sottovesti e scialli) riecheggia quella dei precedenti decenni before the Revolution: il nero in cui s’avvolge donna Fabia è quello d’una goyesca Maja vestida che rimpiange la dominazione austriaca, forse addirittura l’antecedente spagnola. Porta il lutto, ma non per ragioni di famiglia, ma per il Sei e Settecento che se ne sono volati via dispettosi.
Il prete di casa è interpretato da Andreapietro Anselmi, obbligato dal languorino allo stomaco a connivente silenzioso assenso.
Marco Tullio Giordana